
Claude Hopkins: il pubblicitario che insegnò al mondo come lavarsi i denti
Claude Hopkins: il pubblicitario che insegnò al mondo come lavarsi i denti
Consigli per vendere di più dal padre della moderna pubblicità
“Nessuno dovrebbe occuparsi di marketing prima di aver letto questo libro almeno sette volte”.
Così disse David Ogilvy (di cui abbiamo parlato qui) riferendosi a Scientific Advertising di Claude Hopkins, libro del 1923 tutt’oggi considerato una pietra miliare della pubblicità e uno dei testi più apprezzati del settore.
Ecco un piccolo focus su questa figura leggendaria, a detta di molti il più grande pubblicitario della storia.
Chi era Claude Hopkins
Vissuto tra il 1866 e il 1932, Hopkins vive in pieno la nascita della cultura di massa a cavallo tra i due secoli osservando la nascita della pubblicità, che allora si limitava alla cartellonistica e all’esposizione di prodotti nei giornali senza preoccuparsi di monitorare l’andamento delle vendite e dei risultati.
Claude si mantiene con diversi lavori in seguito alla morte del padre, ma è il lavoro del venditore porta a porta che gli permette di affinare le tecniche di comunicazione che si riveleranno utili nel mestiere di pubblicitario.
Il pensiero
Molti dei principi della pubblicità che oggi diamo per scontati sono stati formulati per primi proprio da Hopkins. Il suo più grande merito è quello di aver capito prima di tutti che la pubblicità non è un’arte che serve ad intrattenere il pubblico attraverso belle immagini e belle musiche, ma una disciplina volta ad incrementare le vendite dei prodotti e servizi reclamizzati e basata su ricerche di mercato, studio, progettazione, test e monitoraggio dei risultati.
Hopkins riteneva che il modo corretto di procedere dovesse attingere a piene mani al metodo scientifico, che lui utilizzava come base nell’elaborazione delle sue campagne.
Fu il primo teorizzatore dell’Hard Selling, una corrente pubblicitaria del Novecento orientata in modo netto alla vendita e al risultato, frutto del suo passato da venditore porta a porta nel quale doveva convincere le persone ad acquistare i prodotti nel minor tempo possibile, senza perdersi in chiacchiere inutili. Questa concezione della pubblicità sarà poi la colonna portante del pensiero di due giganti del settore quali Ogilvy e Reeves , ed è tuttora la base su cui poggia il marketing.

Un altro cardine del pensiero di Hopkins è l’utilizzo di campioni da diffondere ai consumatori per saggiare l’efficacia del prodotto e intuire in anticipo il possibile successo della campagna, anche questa tecnica già usata nel suo passato da venditore.
Credeva fermamente nell’introdurre in ogni campagna una promessa contenente un beneficio e una reason why, anticipando di qualche decennio il concetto di Unique Selling Proposition di Rosser Reeves.
Il rigore scientifico era accompagnato dalla volontà di ottenere risultati senza perdersi in inutili orpelli linguistici e immagini pompose fini a se stesse, piacevoli da vedere ma povere di riscontro in termini di vendite.
Le campagne più famose
Impossibile citare tutte le campagne curate per piccole e grandi aziende americane, ma vale la pena citare quella per Pepsodent, per la quale ha operato una piccola, grande rivoluzione nel campo dei dentifrici, fino ad allora poco utilizzati e non associati al concetto di igiene. A Hopkins viene l’idea di informare il pubblico che il dentifricio rimuove la patina che si forma sui denti, omettendo che quella patina non ha nessun effetto sulla salute dei denti e che per rimuoverla non c’è affatto bisogno del dentifricio, ma è sufficiente lo spazzolino. Sposta poi l’asse dal timore della carie a quello del sorriso sano volto a sedurre le altre persone, incentrando la promessa del brand sulla bellezza.
Dicevano di lui
David Ogilvy considerava Hopkins come il più grande pubblicitario che fosse mai esistito, e riprende a piene mani il metodo scientifico orientato alla vendita e gran parte della sua filosofia, di cui abbiamo parlato qui.
Rosser Reeves, nel suo best seller Reality in Advertising, cita un aneddoto su Hopkins che ne racchiude la filosofia: “per scrivere una campagna riguardo a una birra, fece un giro della fabbrica in cui stava a sentire educatamente tutte le meraviglie del malto e del luppolo. Ma diventò tutto orecchie quando scoprì che le bottiglie vuote venivano sterilizzate con il vapore. Il cliente obiettò che tutti i birrai facevano la stessa cosa. Hopkins pazientemente spiegò che non era importante quello che facevano ma quello che dicevano in pubblicità”.
L’eredità
Come dicevamo, alcune regole del marketing che oggi diamo per scontate sono state teorizzate e applicate per la prima volta da Hopkins, e sono ben presenti anche del digital marketing.
Quando guardiamo un video su YouTube e ci viene proposto di usare il codice fornito per avere uno sconto in fase di acquisto, questa è una tecnica usata per la prima volta oltre cento anni fa proprio da Hopkins. Quando creiamo una campagna sui social network e facciamo un test AB per vedere quale dei due annunci ottiene maggiori risultati, in modo da concentrare i nostri sforzi su quello, stiamo utilizzando la filosofia di Hopkins che prevede di effettuare una piccola (o grande) ricerca di mercato per orientare le nostre azioni.
Ritroviamo Hopkins (poi ripreso da Reeves) quando cerchiamo di creare un annuncio che contenga un preciso motivo che spinge all’acquisto, senza disperdere il messaggio in tanti concetti che hanno come effetto la riduzione dell’efficacia.
Lo tradiamo, invece, quando pensiamo ai like come la metrica per eccellenza, non considerando altri parametri nel successo della campagna, quando creiamo contenuti sensazionalistici fini a se stessi, quando ci dimentichiamo che la pubblicità è la disciplina del vendere, non l’arte del divertire.
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